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DIV. CUNEENSE
 
 
Capitano Silvio Sibona

Il Capitano del 4° Rgt. Artiglieria Alpina  Gruppo Mondovì Silvio Sibona, al quale è intitolato il nostro gruppo, venne insignito il 20 gennaio 1943   a Nowo Postolajowka di  M.O.V.M.

 
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NOWO POSTOJALOWKA - 20 GENNAIO 1943
 

 

A Nowo Postojalowka la Cuneense era giunta, nella fase di ripiegamento,  dalle posizioni che occupava sul fiume Don,  a causa dello sfondamento dei sovietici nel settore tenuto dall'Armata Romena-Ungherese. Qui la divisione male armata, già provata dalla fatica e dalla fame, si trovo' a combattere contro un nemico superiore di numero e di armi per aprirsi un varco verso casa. Nella battaglia vennero praticamente annientati gli alpini del Saluzzo, del Ceva, del Borgo S. Dalmazzo e del Dronero e del Mondovì e qui inizio il calvario dei superstiti che continuarono ad avanzare combattendo praticamente fino al 27 gennaio 1943, quanto la cattura del Generale Battisti e degli ufficiali al suo comando, ne segnò in pratica la fine.

Nonostante tutto questo, molti alpini non si arresero come il maggiore Boniperti del Saluzzo che, con i suoi 150 uomini rimastigli, cerco' di forzare il passaggio o come il comandante del Mondovì, Lino Ponzinibio, medaglia d'oro al Valor Militare che, seppur ferito, respinse l'ordine di resa e fatto schierare a difesa quel che restava del leggendario “Mondovì” resistette ancora per circa due ore con i suoi, i nostri alpini, inchiodati nella neve sotto il fuoco di artiglieria e mortaio e quando i russi convinti di aver completamente annientato il Battaglione avanzarono, i pochi superstiti ebbero la forza di accogliere i cosacchi a fucilate anche se ogni resistenza era impossibile e vana. Fini così la gloriosa Divisione Alpina Cuneense a cui toccò in questa tragica campagna il doloroso primato delle perdite, quasi 14 mila fra ufficiali, sottufficiali, alpini morirono o furono dichiarati dispersi in terra di Russia.

 

Armati di bombe a mano e fucili contro i carri russi: il racconto di un reduce.

Dopo tre interminabili giornate, nel corso delle quali uomini, animali e mezzi furono impegnati fino allo spasimo per cercare di sfuggire alla terribile tenaglia dell’Armata rossa che si stava chiudendo attorno al Corpo d’armata alpino, il 20 gennaio 1943 fu il giorno più lungo del ripiegamento della divisione alpina "Cuneense" e costituì una della pagine più gloriose che le penne nere abbiano mai scritto durante la loro lunga storia: la battaglia di Nowo Postolajowka, durata circa trenta ore, di cui inspiegabilmente si è sempre parlato poco, anche se fu l’unica, importante battaglia combattuta sul fronte orientale esclusivamente da truppe italiane, senza il concorso, seppur minimo, di reparti o mezzi corazzati alleati, combattimento che vide impegnati alcuni reparti della "Julia" e l’intera "Cuneense".

Lasciamo ora la parola ad uno dei testimoni oculari del combattimento: il tenente della "Cuneense" Assunto Bianco (il racconto è tratto dal volumeRussia 1942-1943. La parola ai reduci. Per non dimenticare, edito dall’Ana di Cuneo).

«Dopo tre giorni, in piena crisi di ripiegamento e con tutte le difficoltà che si erano presentate in ogni momento, verso la mezzanotte del 19 gennaio 1943, lo scaglione del I Reggimento alpini, con i battaglioni "Ceva" e "Mondovì" ed i gruppi "Mondovì" e "Val Po" del IV Reggimento artiglieria alpina, raggiungono la dorsale alla cui estremità era situato il caposaldo mobile russo di Nowo Postojalowka, difeso da reparti autotrasportati e da un forte nucleo di carri armati medi e pesanti. Contro di esso stavano combattendo da diverse ore gli alpini dell’VIII Reggimento della "Julia" il cui comandante, colonnello Cimolino, si incontrò col comandante del I alpini, colonnello Manfredi. Dopo aver esaminato la situazione, si concordò che un nuovo attacco condotto da reparti efficienti, come lo erano ancora quelli della "Cuneense", sarebbe stato in grado di sopraffare il nemico.

Pertanto il colonnello Manfredi ordinò al battaglione "Ceva" di sferrare l’attacco alle prime luci dell’alba, appoggiato dai gruppi di artiglieria "Mondovì" e "Conegliano" e dall’84ª Compagnia cannoni anticarro.

Con le compagnie in formazione d’assalto il "Ceva" partì all’attacco. Sanguinose perdite aprirono vuoti tra le sue file; mezzi corazzati nemici, sistemati tra le case, sparavano alzo zero contro gli alpini che avanzavano di corsa armati di moschetti e bombe a mano. Intanto sbucavano altri carri armati dai boschi laterali ed allora la strage divenne generale.

Ne contai sette che avanzavano con orribile fracasso per poi sparire in una nube di neve e di fumo. Sopra di essi si trovavano soldati russi in tuta mimetica che sparavano con i loro fucili mitragliatori, poi sparivano in altra direzione e non si capiva se al ritorno erano gli stessi od altri. Si diceva che la colonna di carri nemici fosse composta da una trentina di mezzi, che fosse diretta contro la "Tridentina" e che solo per pura coincidenza avesse incrociato la nostra divisione.

Intanto il "Ceva", che aveva subìto perdite rilevanti, era costretto ad attestarsi in una posizione più arretrata per riordinarsi. Erano caduti due comandanti di compagnia e la neve era coperta di morti e feriti. Verso le nove i resti del "Ceva" ripresero l’offensiva; si videro alpini scalare i carri nemici per gettarvi nelle torrette bombe a mano. Cadde tra i primi il Comandante del battaglione, sbrindellato da un colpo di cannone di un carro armato. Intervenne nella lotta il battaglione "Mondovì" che ne seguì le sorti. Cadde tra i primi il comandante di battaglione, due comandanti di compagnia e quasi tutti i comandanti di plotone. Il battaglione "Mondovì" perse in tal modo in poche ore la sua forza ed i suoi uomini.

Verso le undici la situazione divenne disperata: i battaglioni erano ridotti a qualche centinaio di uomini validi; dei pezzi anticarro la maggior parte erano stati distrutti; alcuni di essi e diversi pezzi da montagna erano stati schiacciati assieme ai loro serventi dai carri armati nemici. Gli alpini e gli artiglieri alpini giacevano in grovigli di sangue e di ferro; erano caduti tutti e tre i comandanti di batteria del gruppo "Mondovì". Ne vidi uno con la testa staccata dal busto vicino ad un pezzo fuori uso in una buca nella neve. Numerose slitte cariche di feriti e munizioni erano state schiacciate; il munizionamento dei reparti ancora efficienti scarseggiava.

Verso mezzogiorno anche il nemico aveva momentaneamente allentato la morsa, forse stupito da così coraggiosa resistenza; mezza dozzina di carri armati erano inchiodati nella neve, altri gravemente danneggiati; diversi soldati russi giacevano senza vita attorno ad essi. Intanto i feriti venivano sgombrati; i più leggeri sistemati sulle slitte, quelli gravi ricoverati nelle poche isbe ancora intatte. Siamo stati costretti ad abbandonare i morti sulla neve.

Verso l’una del pomeriggio anche il II alpini entrò in contatto col nemico. I battaglioni "Saluzzo" e "Borgo San Dalmazzo" incontrarono forti contingenti russi asserragliati in un gruppo di isbe. Il combattimento infuriò subito violentissimo ed anche in questa occasione i russi erano accompagnati dai carri armati T34 e quattro di questi vennero bloccati e distrutti. Frattanto il battaglione "Dronero", in retroguardia, arrestava e respingeva il nemico che cercava di aggirare i battaglioni di punta e catturava numerosi prigionieri.

Poi l’ombra della sera cadde sul tragico campo di battaglia e mentre i battaglioni "Borgo San Dalmazzo", "Saluzzo" col gruppo "Pinerolo" venivano annientati, i resti del I alpini e dei gruppi "Mondovì" e "Val Po"su ordine del Comandante si raccoglievano e tentavano lo sganciamento dal nemico attraverso una profonda valletta.Col "Ceva" e il "Mondovì" vi erano alpini della "Julia" e resti dei battaglioni "Gemona" e "Cividale" ridotti a sparuti drappelli. Con le poche slitte stracariche di feriti e di armi abbandoniamo Nowo Postojalowka in fiamme. In molte di quelle isbe che bruciavano erano stati ricoverati i nostri feriti».

L’ineguagliabile spirito di corpo, la generosità, la formidabile volontà, la calda umanità, la capacità di affrontare i pericoli della vita, lo spirito di sacrificio diedero la forza a questi uomini di uscire a testa alta da quella tremenda odissea. A quei valorosi soldati che con grande dignità e senso di responsabilità affrontarono durissimi sacrifici e sofferenze, tali che la nostra mente oggi non riesce a concepire, a tutti i caduti che sulle gelide nevi della steppa russa e nei letali lager sovietici immolarono la loro vita vada la nostra riconoscenza e un imperituro ricordo.

La nazione ha il dovere di ricordare i suoi figli e il prezioso patrimonio che essi hanno lasciato alle nuove generazioni: l’amor di patria, il senso del dovere, lo spirito di sacrificio e di umana solidarietà, il senso di responsabilità, il desiderio di vivere in pace e libertà.

(Romano Marengo)

 

 

 

 
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